Fragmentos
A notte fonda, se non funziona la pastiglia, guardo gli animali sullo schermo del computer. Mi calmano le ali, la savana, lo sterno carenato degli uccelli. Aspetto gli sbadigli dei felini quelli docili dei gatti soprattutto. Dopo sbadigliando torno a letto.
Come mai di colpo poi spariscono senza dare spiegazioni, come mai nessuno vuole più sentire il verso del cavallo, nessuno dice più nitrito, raglio, nessuno vuole più un barrito. Sono grandi glaciazioni, gli animali se ne vanno dalle case nottetempo. Ci si sveglia e non c’è più l’infanzia.
Siano benedettele le mosche dipinte negli orinatoi: sono un esercizio facilitato di manutenzione della specie, ditteri in ceramica offerti all’istinto dell’uomo cacciatore, bersaglio sistemato in mezzo al bianco perché sia impossibile fallire. È uno stato di natura fornito da una ditta: la preda, se sarà sbiadita, verrà sostituita.
Certi giorni qui dall’ottavo piano è facile che si sbaglino le orecchie e scambino un bambino per un gatto o tutti e due per un gabbiano. Oggi è invece il cigolio dell’altalena e il seguente contrattacco degli uccelli, l’orgoglio diramato con i becchi di essere gli unici a volare.
Forse è proprio la voce della specie questo pervicace battere e levare sulle lettere, la riga che va via e sparisce dentro il bianco terso. Non è un grugnito o un miagolio è un po’ belato stanco un po’ starnazzo. È la poesia, lo strazio vocale di ogni io. Bello o brutto, è il verso che facciamo.
Mi succede a ogni trasloco: basta un libro poggiato sopra un mobile poi si allarga come l’edera sui muri in poco tempo la casa è una foresta. Dopo pochi mesi c’è già la fioritura è una festa di forme e di colori, dai volumi si sprigiona il coro proprio della specie, l’impostura.